29.4.10

Scusate Ancora

I gatti negli specchi



(...) Lasciatemi dire un’altra cosa, e poi basta.
Non voglio offendervi. La vostra coscienza, voi dite. Non volete che sia messa in dubbio. Me n’ero scordato, scusate. Ma riconosco, riconosco che per voi stesso, dentro di voi, non siete quale io, di fuori, vi vedo. Non per cattiva volontà. Vorrei che foste almeno persuaso di questo. Voi vi conoscete, vi sentite, vi volete in un modo che non è il mio, ma il vostro; e credete ancora una volta che il vostro sia giusto e il mio sbagliato. Sarà, non nego. Ma può il vostro modo essere il mio e viceversa?
Ecco che torniamo daccapo!
Io posso credere a tutto ciò che voi dite. Ci credo. Vi offro una sedia: sedete; e vediamo di metterci d’accordo.
Dopo una buona oretta di conversazione, ci siamo intesi perfettamente.
Domani mi venite con le mani in faccia, gridando:
- Ma come? Che avere inteso? Non mi avevate detto così e così?
Così e così perfettamente. Ma il guajo è che voi, caro, non saprete mai, né io vi potrò mai comunicare come si traduca in me quello che voi mi dite. Non avete parlato turco, no. Abbiamo usato, io e voi la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell’accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d’intenderci; non ci siamo intesi affatto.
Eh, storia vecchia anche questa, si sa. E io non pretendo dir niente di nuovo. Solo torno a domandarvi:
- Ma perché allora, santo Dio, seguitate a fare come se non si sapesse? A parlarmi di voi, se sapete che per essere per me quale siete per voi stesso, e io per voi quale sono per me, ci vorrebbe che io, dentro di me, vi déssi quella stessa realtà che voi vi date, e viceversa; e questo non è possibile?
Ahimè, caro, per quanto facciate, voi mi darete sempre una realtà a modo vostro, anche credendo in buona fede che sia a modo mio; e sará non dico; magari sarà; ma a un “modo mio” che io non so né potrò mai sapere; che saprete soltanto voi che mi vedete da fuori: dunque un “modo mio” per voi, non un “modo mio” per me.
Ci fosse fuori di noi, per voi e per me, ci fosse una signora realtà mia e una signora realtà vostra, dico per se stesse, e uguali, immutabili. Non c’è. C’è in me e per me una realtà mia: quella che io dò; una realtà vostra in voi e per voi: quella che voi vi date; le quali non saranno mai le stesse né per voi né per me.
E allora?
Allora, amico mio, bisogna consolarci con questo: che non è più vera la mia che la vostra, e che durano un momento così la vostra come la mia.
Vi gira un po’ il capo? Dunque dunque... concludiamo. (...)

Luigi Pirandello
Uno, Nessuno e Centomila, L.2º-IV

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